Gli esseri umani, quando
veniamo in questo mondo, c’integriamo nella convivenza umana, cioè socializziamo.
E c’integriamo nella società e nella convivenza perché il motore che ci muove è
il meccanismo della "mimesìs",
l’”imitazione”. Il bambino imita ciò che vede e ciò che sente dai suoi genitori
e, in genere, dal suo ambiente. Così impara un linguaggio, alcune abitudini,
alcuni modelli di comportamento, alcuni valori, tutto. Ora l’imitazione degli altri scatena
inevitabilmente il desiderio di avere
ciò che gli altri hanno. Perciò nella vita degli esseri umani entra
l’esperienza del desiderio come elemento determinante e perfino decisivo nella
convivenza delle persone e dei gruppi. Questo è uno degli argomenti decisivi
che, come ho già detto prima, ha analizzato con notevole perspicacia René
Girard. Ma, naturalmente, nella misura in cui l’imitazione porta al desiderio,
in questa stessa misura l’imitazione porta anche alla rivalità e questa alla violenza.
Perciò si comprende l’enorme pericolosità che comporta il desiderio e la
rivalità che esso produce tra gli esseri umani. Occorre ripeterlo ancora una
volta, poiché è una delle chiavi della vita e di quanto sta avvenendo nella tormentata
vicenda di questo mondo: nel “desiderio” sta la radice delle rivalità, delle
ostilità e delle violenze d’ogni tipo che incessantemente generano conflitti,
scontri, sofferenza e morte.
Da ciò si comprende perché,
secondo la Bibbia ,
l’ultimo comandamento del decalogo anziché proibire un’azione (ammazzare, rubare, mentire...), ciò che proibisce è un desiderio: “Non desidererai la casa del
tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né
la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al
tuo prossimo (Es 20,17). Tale proibizione, pur enumerando una serie di realtà
desiderabili (la casa, la donna, lo schiavo, la schiava, il bue, l’asino...), è
una proibizione che non ha limite alcuno, poiché termina riferendosi a “qualsiasi
cosa che appartenga al tuo prossimo”. Vale a dire, come indica Girard, ciò che
qui si proibisce è il “desiderio comune a tutti gli uomini, il desiderio per
antonomasia”. E la ragione d’una simile proibizione senza limiti è che solo
così si può risolvere il problema numero uno di ogni comunità umana: la
rivalità e, con essa, la violenza. In modo che per un gruppo umano, in cui non
si reprima una tale aggressività, “la fine può essere soltanto una: la morte»”
E questo è vero fino a tal punto che “per mantenere la pace tra gli uomini,
occorre definire ciò ch’è proibito in funzione di questo temibile fatto
provato: il prossimo è il modello dei nostri desideri”. È ciò che si suole
designare come il “desiderio mimetico”, il desiderio che nasce dall’imitazione.
Pur se ho già parlato di questo, vi insisto perché la gente non si suole
rendere conto di quel che ciò rappresenta nella vita: primo, a grande scala, i
conflitti internazionali e le guerre; e poi, in piccola scala, le tensioni
nelle famiglie, tra fratelli e amici e nella convivenza quotidiana. Tutto ciò è
più che provato. Ma, purtroppo, è poco conosciuto, per cui quasi nessuno ne
tiene conto. Perciò non v’insisteremo mai abbastanza.
La
genialità di Gesù
Visto quanto ho appena
spiegato, si coglie ciò che può ben definirsi come un’autentica “genialità”
nell’insegnamento di Gesù. Infatti, secondo il programma che il Vangelo
presenta nelle beatitudini, Gesù non imposta il suo progetto etico a partire da
un comandamento e meno ancora a partire da una proibizione. Gesù non proibisce, ma propone. Voglio dire, non proibisce la violenza e tutto ciò che la violenza presuppone e comporta
(aggressioni, ingiustizie, sopraffazioni, sofferenze e morte), ma propone la felicità: “Beati i poveri, quelli che
piangono, quelli che soffrono, quelli che hanno misericordia, quelli che
lavorano per la pace...”. Per Gesù ciò che importa nella vita è fare felice la gente, vivere e agire in modo
tale che gli altri (e se stessi, naturalmente) si sentano più felici di esser
nati. Perciò le beatitudini si riferiscono a situazioni della vita in cui
la gente soffre, in cui non si suole essere felici: i poveri, quelli che
piangono, gli oppressi, quelli che hanno fame e sete di giustizia (Mt 5,3-6),
quelli che vivono perseguitati (Mt 5,10), quelli che ricevono insulti, persecuzioni
e calunnie (Mt 5,11). Come pure le beatitudini fanno riferimento a quelli che
prestano aiuto (Mt 5,7), a quelli che hanno un cuore pulito e buono (Mt 5,8) e
a quelli che lavorano per la pace (Mt 5,9). Ovviamente Gesù non stabilisce una
casistica e meno ancora un ricettario di formule di felicita. Gesù descrive uno
stile di vita, un modo d’essere e di vivere che si esprime e si concretizza non in alcuni precetti (con i loro obblighi
conseguenti), ma in alcune esortazioni alla bontà (con la conseguente felicità
che apportano), Cosi Gesù intendeva l’etica.
L’esperienza storica
c’insegna che i comandamenti e le proibizioni hanno sempre meno forza nel
modificare la vita delle persone, soprattutto se si tratta di proibizioni
basate su sanzioni trascendenti, che nessuno può verificare e che, pertanto,
nessuno è certo che abbiano conseguenze reali e concrete nell’esistenza d’ogni
giorno. Per fare un esempio, le autorità ecclesiastiche hanno ripetuto fino alla
sazietà le proibizioni (e le loro conseguenti minacce) sui peccati contro il
sesto comandamento. Cosa s’è ottenuto con tutto ciò? Sappiamo certamente che vi
sono persone represse in questo genere di cose. E anche persone sopraffatte da
scrupoli e disturbi psichici che tentano di risolvere negli studi degli
psicologi e degli psichiatri. Ma nessuno può mettere in dubbio che la
rivoluzione sessuale e la crescente libertà che oggi si vive come fenomeno
culturale è qualcosa che né i documenti papali né le censure canoniche né i
richiami di predicatori e confessori possono frenare. Ed è certo che questa
faccenda continuerà ad andare avanti, qualunque sia il punto di vista che
ognuno ha al riguardo.
Al contrario, è un dato di
fatto che la gente vive ogni giorno con più forza la preoccupazione per le
vittime, la sensibilità di fronte alla sofferenza, la resistenza di fronte alle
violenze. Ma soprattutto è evidente che l’aspirazione a essere felici, a vedere
un senso alla vita che si conduce, a
sentirsi ogni giorno meglio, a godere della stessa dignità e degli
stessi diritti di cui godono gli altri, a vedersi e sentirsi rispettato e
valorizzato, a percepire che gli altri s’interessano a te e ti vogliono bene, tutto
ciò è qualcosa che ha cosi tanta forza che chiunque si presenti con un qualche
messaggio che non dica neanche una parola su quanto ho appena richiamato, nei
tempi che viviamo e in quelli che s‘avvicinano, è e sarà destinato al
fallimento.
Una
crescente generosità
Per finire, nessuno mi dica
che questo modo di presentare la morale può condurre solo all`edonismo, al
lassismo e all’immoralità. Anche se non s’arriva a tanto, non mancherà chi dica
che quanto meno quest’ “invenzione” dell’etica della felicità potrà servire
unicamente per legittimare il proprio comodo, ciò che ci risulta più facile e
che esige meno sforzo. In definitiva, un modo semplice e stupido per camuffare
il proprio egoismo e la bella vita.
Non so se a qualcuno capiti
di pensare e di dire tutto questo. In ogni caso, ciò che (secondo me) non
ammette dubbi è che ogni comandamento e ogni proibizione stabilisce alcuni
limiti ai quali uno s’adegua ed è presto fatto. Mentre la ricerca e il
conseguimento della felicità comporta ed esige una ricerca senza limiti. Perciò,
quando abbiamo a che fare con comandamenti e proibizioni, compaiono subito gli
specialisti di canoni, leggi e precetti, i legulei di turno, gl’incaricati nel
delimitare fin dove privarsi della tale cosa o fino a quando bisogna fare la
talaltra. C’è bisogno di “delimitare” il comandamento. Per adempiere ciò che
bisogna adempiere e niente di più. La storia della morale cattolica è strapiena
di casi e circostanze che oggi ci fanno sorridere con ironia.
Al contrario, se si tratta
di ottenere che il mondo e la vita siano diversi, in modo che anche i più
sventurati si sentano beati, poiché questo ci dice Gesù nelle beatitudini,
allora, amici miei, ne abbiamo di lavoro! Ed è proprio qui che si vede fin dove
arriva la generosità d’una persona, si vede la fede e la dedizione di una
persona a una causa che si prende davvero sul serio.
Siamo sinceri: se non accettiamo
questo modo d’intendere l’etica, è perché ci fa paura assumerlo come progetto
di vita. Poiché, se ciò si prende sul serio, ci troviamo di fronte alla saggia
avvertenza di Marcel Gauchet: “Repentinamente siamo passati a un’impostazione
dove la morale diventa centrale per l’autocoscienza dell’individuo. Non la
morale come dottrina del sacrificio e sistema di doveri, ma la morale come
responsabilità di fronte a se stessi delle ragioni che guidano il proprio
comportamento”. Non si tratta di privarsi di questo o di quello. Né tanto meno
di sbarazzarsi di tale obbligo e cosi mettere a tacere la coscienza. Si tratta
di qualcosa di molto più serio, più centrale nella vita, la cosa più centrale
dell’esistenza: ciò che auto-costituisce il soggetto, qualcosa cioè che, se il
soggetto ne manca, cessa semplicemente di essere il soggetto che dev’essere. Pertanto,
ciò ch’e in gioco non è di rendere conto a un'autorità religiosa o divina. Si
tratta che ognuno sia ciò che dev’essere. E questo, se siamo semplicemente
umani, non può voler dire altro se non che in questo mondo vi sia meno
sofferenza e più felicità.
Jeremy Bentham, poco prima
di morire, inviò un augurio di compleanno alla figlia di un amico, in cui
scrisse questo:
“Crea tutta la felicità che puoi, elimina tutta l’infelicità
che puoi. Ogni giornata ti darà l’opportunità di aggiungere qualcosa al
benessere degli altri o di mitigare in qualcosa i loro dolori. E ogni granello
di felicità che semini nel cuore altrui germinerà nel tuo stesso cuore, mentre
ogni dolore che togli dai pensieri e dai sentimenti dei tuoi simili verrà
ricambiato con la pace e la gioia più belle nel santuario della tua anima”.
Senza dubbio si tratta d’un
progetto di vita che, se preso sul serio, esige una generosità sempre
crescente, senza alcun limite. Ma che al tempo stesso è una fonte inesauribile
di felicità, di godimento e di speranza.
José M.
Castillo: Fuori dalle righe
Pagg. 155-161
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