lunedì 26 marzo 2012

10_GESU' E IL DENARO





Il desiderio e la “mimesis
Gli esseri umani, quando veniamo in questo mondo, c’integriamo nella convivenza umana, cioè socializziamo. E c’integriamo nella società e nella convivenza perché il motore che ci muove è il meccanismo della "mimesìs", l’”imitazione”. Il bambino imita ciò che vede e ciò che sente dai suoi genitori e, in genere, dal suo ambiente. Così impara un linguaggio, alcune abitudini, alcuni modelli di comportamento, alcuni valori, tutto. Ora l’imitazione degli altri scatena inevitabilmente il desiderio di avere ciò che gli altri hanno. Perciò nella vita degli esseri umani entra l’esperienza del desiderio come elemento determinante e perfino decisivo nella convivenza delle persone e dei gruppi. Questo è uno degli argomenti decisivi che, come ho già detto prima, ha analizzato con notevole perspicacia René Girard. Ma, naturalmente, nella misura in cui l’imitazione porta al desiderio, in questa stessa misura l’imitazione porta anche alla rivalità e questa alla violenza. Perciò si comprende l’enorme pericolosità che comporta il desiderio e la rivalità che esso produce tra gli esseri umani. Occorre ripeterlo ancora una volta, poiché è una delle chiavi della vita e di quanto sta avvenendo nella tormentata vicenda di questo mondo: nel “desiderio” sta la radice delle rivalità, delle ostilità e delle violenze d’ogni tipo che incessantemente generano conflitti, scontri, sofferenza e morte.
Da ciò si comprende perché, secondo la Bibbia, l’ultimo comandamento del decalogo anziché proibire un’azione (ammazzare, rubare, mentire...), ciò che proibisce è un desiderio: “Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo (Es 20,17). Tale proibizione, pur enumerando una serie di realtà desiderabili (la casa, la donna, lo schiavo, la schiava, il bue, l’asino...), è una proibizione che non ha limite alcuno, poiché termina riferendosi a “qualsiasi cosa che appartenga al tuo prossimo”. Vale a dire, come indica Girard, ciò che qui si proibisce è il “desiderio comune a tutti gli uomini, il desiderio per antonomasia”. E la ragione d’una simile proibizione senza limiti è che solo così si può risolvere il problema numero uno di ogni comunità umana: la rivalità e, con essa, la violenza. In modo che per un gruppo umano, in cui non si reprima una tale aggressività, “la fine può essere soltanto una: la morte»” E questo è vero fino a tal punto che “per mantenere la pace tra gli uomini, occorre definire ciò ch’è proibito in funzione di questo temibile fatto provato: il prossimo è il modello dei nostri desideri”. È ciò che si suole designare come il “desiderio mimetico”, il desiderio che nasce dall’imitazione. Pur se ho già parlato di questo, vi insisto perché la gente non si suole rendere conto di quel che ciò rappresenta nella vita: primo, a grande scala, i conflitti internazionali e le guerre; e poi, in piccola scala, le tensioni nelle famiglie, tra fratelli e amici e nella convivenza quotidiana. Tutto ciò è più che provato. Ma, purtroppo, è poco conosciuto, per cui quasi nessuno ne tiene conto. Perciò non v’insisteremo mai abbastanza.

La genialità di Gesù
Visto quanto ho appena spiegato, si coglie ciò che può ben definirsi come un’autentica “genialità” nell’insegnamento di Gesù. Infatti, secondo il programma che il Vangelo presenta nelle beatitudini, Gesù non imposta il suo progetto etico a partire da un comandamento e meno ancora a partire da una proibizione. Gesù non proibisce, ma propone. Voglio dire, non proibisce la violenza e tutto ciò che la violenza presuppone e comporta (aggressioni, ingiustizie, sopraffazioni, sofferenze e morte), ma propone la felicità: “Beati i poveri, quelli che piangono, quelli che soffrono, quelli che hanno misericordia, quelli che lavorano per la pace...”. Per Gesù ciò che importa nella vita è fare felice la gente, vivere e agire in modo tale che gli altri (e se stessi, naturalmente) si sentano più felici di esser nati. Perciò le beatitudini si riferiscono a situazioni della vita in cui la gente soffre, in cui non si suole essere felici: i poveri, quelli che piangono, gli oppressi, quelli che hanno fame e sete di giustizia (Mt 5,3-6), quelli che vivono perseguitati (Mt 5,10), quelli che ricevono insulti, persecuzioni e calunnie (Mt 5,11). Come pure le beatitudini fanno riferimento a quelli che prestano aiuto (Mt 5,7), a quelli che hanno un cuore pulito e buono (Mt 5,8) e a quelli che lavorano per la pace (Mt 5,9). Ovviamente Gesù non stabilisce una casistica e meno ancora un ricettario di formule di felicita. Gesù descrive uno stile di vita, un modo d’essere e di vivere che si esprime e si concretizza non in alcuni precetti (con i loro obblighi conseguenti), ma in alcune esortazioni alla bontà (con la conseguente felicità che apportano), Cosi Gesù intendeva l’etica.
L’esperienza storica c’insegna che i comandamenti e le proibizioni hanno sempre meno forza nel modificare la vita delle persone, soprattutto se si tratta di proibizioni basate su sanzioni trascendenti, che nessuno può verificare e che, pertanto, nessuno è certo che abbiano conseguenze reali e concrete nell’esistenza d’ogni giorno. Per fare un esempio, le autorità ecclesiastiche hanno ripetuto fino alla sazietà le proibizioni (e le loro conseguenti minacce) sui peccati contro il sesto comandamento. Cosa s’è ottenuto con tutto ciò? Sappiamo certamente che vi sono persone represse in questo genere di cose. E anche persone sopraffatte da scrupoli e disturbi psichici che tentano di risolvere negli studi degli psicologi e degli psichiatri. Ma nessuno può mettere in dubbio che la rivoluzione sessuale e la crescente libertà che oggi si vive come fenomeno culturale è qualcosa che né i documenti papali né le censure canoniche né i richiami di predicatori e confessori possono frenare. Ed è certo che questa faccenda continuerà ad andare avanti, qualunque sia il punto di vista che ognuno ha al riguardo.
Al contrario, è un dato di fatto che la gente vive ogni giorno con più forza la preoccupazione per le vittime, la sensibilità di fronte alla sofferenza, la resistenza di fronte alle violenze. Ma soprattutto è evidente che l’aspirazione a essere felici, a vedere un senso alla vita che si conduce, a  sentirsi ogni giorno meglio, a godere della stessa dignità e degli stessi diritti di cui godono gli altri, a vedersi e sentirsi rispettato e valorizzato, a percepire che gli altri s’interessano a te e ti vogliono bene, tutto ciò è qualcosa che ha cosi tanta forza che chiunque si presenti con un qualche messaggio che non dica neanche una parola su quanto ho appena richiamato, nei tempi che viviamo e in quelli che s‘avvicinano, è e sarà destinato al fallimento.

Una crescente generosità
Per finire, nessuno mi dica che questo modo di presentare la morale può condurre solo all`edonismo, al lassismo e all’immoralità. Anche se non s’arriva a tanto, non mancherà chi dica che quanto meno quest’ “invenzione” dell’etica della felicità potrà servire unicamente per legittimare il proprio comodo, ciò che ci risulta più facile e che esige meno sforzo. In definitiva, un modo semplice e stupido per camuffare il proprio egoismo e la bella vita.
Non so se a qualcuno capiti di pensare e di dire tutto questo. In ogni caso, ciò che (secondo me) non ammette dubbi è che ogni comandamento e ogni proibizione stabilisce alcuni limiti ai quali uno s’adegua ed è presto fatto. Mentre la ricerca e il conseguimento della felicità comporta ed esige una ricerca senza limiti. Perciò, quando abbiamo a che fare con comandamenti e proibizioni, compaiono subito gli specialisti di canoni, leggi e precetti, i legulei di turno, gl’incaricati nel delimitare fin dove privarsi della tale cosa o fino a quando bisogna fare la talaltra. C’è bisogno di “delimitare” il comandamento. Per adempiere ciò che bisogna adempiere e niente di più. La storia della morale cattolica è strapiena di casi e circostanze che oggi ci fanno sorridere con ironia.
Al contrario, se si tratta di ottenere che il mondo e la vita siano diversi, in modo che anche i più sventurati si sentano beati, poiché questo ci dice Gesù nelle beatitudini, allora, amici miei, ne abbiamo di lavoro! Ed è proprio qui che si vede fin dove arriva la generosità d’una persona, si vede la fede e la dedizione di una persona a una causa che si prende davvero sul serio.
Siamo sinceri: se non accettiamo questo modo d’intendere l’etica, è perché ci fa paura assumerlo come progetto di vita. Poiché, se ciò si prende sul serio, ci troviamo di fronte alla saggia avvertenza di Marcel Gauchet: “Repentinamente siamo passati a un’impostazione dove la morale diventa centrale per l’autocoscienza dell’individuo. Non la morale come dottrina del sacrificio e sistema di doveri, ma la morale come responsabilità di fronte a se stessi delle ragioni che guidano il proprio comportamento”. Non si tratta di privarsi di questo o di quello. Né tanto meno di sbarazzarsi di tale obbligo e cosi mettere a tacere la coscienza. Si tratta di qualcosa di molto più serio, più centrale nella vita, la cosa più centrale dell’esistenza: ciò che auto-costituisce il soggetto, qualcosa cioè che, se il soggetto ne manca, cessa semplicemente di essere il soggetto che dev’essere. Pertanto, ciò ch’e in gioco non è di rendere conto a un'autorità religiosa o divina. Si tratta che ognuno sia ciò che dev’essere. E questo, se siamo semplicemente umani, non può voler dire altro se non che in questo mondo vi sia meno sofferenza e più felicità.
Jeremy Bentham, poco prima di morire, inviò un augurio di compleanno alla figlia di un amico, in cui scrisse questo:

“Crea tutta la felicità che puoi, elimina tutta l’infelicità che puoi. Ogni giornata ti darà l’opportunità di aggiungere qualcosa al benessere degli altri o di mitigare in qualcosa i loro dolori. E ogni granello di felicità che semini nel cuore altrui germinerà nel tuo stesso cuore, mentre ogni dolore che togli dai pensieri e dai sentimenti dei tuoi simili verrà ricambiato con la pace e la gioia più belle nel santuario della tua anima”.

Senza dubbio si tratta d’un progetto di vita che, se preso sul serio, esige una generosità sempre crescente, senza alcun limite. Ma che al tempo stesso è una fonte inesauribile di felicità, di godimento e di speranza.

José M. Castillo: Fuori dalle righe
Pagg. 155-161

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